Ci sono persone, non importa dire chi o come, che nelle loro vite sbagliano nei tempi e nei modi proprio come noi, solo che non sono proprio come noi, che di certi gesti disgraziati non riusciamo a farcene una ragione. Loro no, loro non si fanno mai sorprendere con lo sguardo cupo e mesto, loro non conoscono l’ansia neanche quando sono quasi spacciate, e sorridono felici anche sull’orlo del precipizio.

Hanno il dono della noncuranza, un modo quasi eroico di abitare la cedevolezza sorridendo, quella segreta allegria con il disastro, quella invidiabile complicità con l’imminenza di una fine.

C’è un personaggio cinematografico che esprime bene questo modus vivendi, il Jean Paul Belmondo di Fino all’ultimo respiro di Godard, e ce lo ricorda e descrive bene Andrea Inglese nel suo libro “Parigi è un desiderio”.

Poi però, fateci caso, ci sono anche persone, e il tennista Agassi era una di queste, che hanno solo una tipologia di sorriso in dotazione, un sorriso triste e depotenziato, non del tutto onesto perché inquinato dalla consapevolezza di non essere nel posto giusto, o di non fare la cosa giusta, e se vi andate a vedere le sue video-interviste lo capite subito.

Sono sorrisi schiacciati dal peso di tutte le vite che non vivranno mai, dalle cose che hanno imparato crescendo, persone giovani ma con un pensiero vecchio, già proiettato nel territorio pericoloso del rimpianto, e rileggendo di recente la sua biografia, seppur a lieto a fine, ho capito che dovevo proprio farci caso, a questo tipo di sorrisi.

 

Articolo di Francesco Mencacci (direttore didattico Scuola Carver)